La serie densa di racconti che Moravia scrive fino alle raccolte de La bella vita (1935) e de L’imbroglio (1937) e che pubblica in varie riviste come ‘900, Pegaso, L’interplanetario, L’italiano, I lupi, testimonia una pratica di scrittura che sembra immettere personaggi letterariamente vividi ma umanamente ignari, in una grande bolla prefreudiana, in cui il ventenne Moravia agisce narrativamente con una precoce perizia sintomatologica intorno a comportamenti ormai storicamente implosi.
La caratterizzazione dei personaggi presenta un’impronta psicologica di tipo letterario, l‘interiorità è scavata con gli strumenti romanzeschi interni e dipendenti dal penetrante flusso narrativo, come nelle conclamate ascendenze manzoniane e vieppiù dostoevskiane. E’ notorio che una buona parte della summa freudiana è dedicata all’arte e alla letteratura, evidentemente come i più efficaci prodromi dell’attività analitica. Fin dalle epiche antiche è stato tutto un affacciarsi temerario sui territori del mistero e dell’inconscio , esaminando le quote dell’influsso dei segni strani e dei sogni sull’azione umana come parte integrante della struttura della rappresentazione. La fase moraviana in oggetto dai venti ai trent’anni è emblematica di questa letterarietà analitica, che irrompe nella pagina con una forza di sensibilità e immaginazione compressa, alimentata evidentemente da quella fervida cattività indotta dalla malattia, accennata più volte dal Moravia autobiografico e raffigurata nel racconto Inverno di malato. “…riassumevo in una novella tutta la mia vita di due anni di sanatorio” [1] .
Ci si presenta un giovane dotato di una furia espressiva attentissima che ha come introiettato gli assunti marxiani e freudiani, poco conosciuti alla lettera, piegandoli intuitivamente alla personale complessione letteraria, frutto di letture adolescenziali fisiologiche per intensità autobiografica, qualcosa di simile allo “studio matto e disperatissimo” leopardiano, come anche rileva Alberto Limentani “ C’è in Moravia qualcosa di più personale, in certo senso preesistente alla mole straordinaria di letture che egli è venuto accumulando dagli anni delle prime esperienze…lettore, come egli ha scritto ripetutamente, avidissimo e spregiudicato nelle scelte” [2].
Effettivamente la traccia marxiana sembra filologicamente alquanto esigua , sussiste un’assenza dei luoghi comuni della produzione e del lavoro, i rapporti di classe sono vaghi, l’interesse per il sé è netto, ma poi oggettivando e storicizzando i dati narrativi fuoriesce il peso politico intenso, come sottolineato nella massa critica dell’interpretazione, nella pertinente vulgata della crisi della borghesia italiana degli anni venti, remissiva di fronte al fanatismo politico e al conformismo volgare che avanzava. La traccia freudiana è invece più palese nella fenomenologia testuale, ma non nel suo profilo ortodosso e sistematico bensì nella considerazione della forza addirittura sociale del sesso, ancora non formalizzata, per questo abbiamo usato il termine prefreudiano. La sessualità è un collante inquieto ed epidemico di questo mondo narrativo giovanile moraviano, almeno di quello che si aggira spesso in una Roma in espansione urbanistica dal sapore ancora umbertino e in una provincia di staticità sociale quasi preunitaria.
Questa prevalenza di una specie di furiosa epistemologia letteraria a cuore aperto e per l’epoca il più possibile senza censure, trova un elemento fondativo nell’emergenza di quinte dell’esistenza più misteriose, di una dimensione irrazionale non lontana spazialmente ma costituente il complesso dell’esistenza della realtà, che anima senza ordine né dialettica, la narrativa del giovane Moravia. Essa ha due caratteristiche intime, una è la sua naturalezza, come fosse cioè lo sguardo proprio ed originario dell’uomo Moravia (quanto di verità e canone poetico nel titolo L’uomo che guarda, romanzo del 1985) formatosi come principio di un razionalismo asciutto ma vibrante e senza consolazione con cui spiegarsi i mali anche fisici dell’età ingrata (Se è questa la giovinezza vorrei che finisse presto emblematico passaggio nizaniano di una delle lettere di Moravia) [3].
L’altra è la sua connotazione europea frutto del suo francese familiare che gli fa amare nelle sue sfumature moderniste Baudelaire e altri maudit e della frequentazione, avviata dal caro amico Andrea Caffi, dell’opera di Dostoevskij , di cui oltre al tema conclamato del male interiore, dell’uomo diviso, si potrebbe approfondire il valore bachtiniano della polifonia, personaggi attanti che si muovono in una viscosa massa narrativa di paesaggi e oggetti semoventi nella loro inquietudine. Con queste facoltà il giovane Moravia entrò, come Carla, si può dire flaubertianamente “Carla c’est moi”, nel rombante contesto storico e culturale dell ‘Italia degli anni venti, gli ultimi, denso di ambigue manovre conservatrici ma anche di lodevoli sfide innovative come quella della rivista ‘900 di Massimo Bontempelli, entro la quale praticò una discreta militanza, pubblicando tra il 1927 e il 1929 sei racconti (Lassitude de courtisane, Caverne doppio uso, Caverne, Il ladro curioso, Apparizione, Delitto al circolo del tennis) e come racconta lui stesso subendo un consistente stimolo alla stesura conclusiva de Gli indifferenti per una specie di scommessa a scrivere un romanzo ciascuno tra i vari collaboratori della rivista. L’impertinenza profonda e geniale del giovane Moravia si poteva sposare a perfezione con il senso di lotta continua e di respiro europeo alle involuzioni dell’io indebolito decadente compresa l’agonia vociante delle ultime avanguardie, necessariamente ormai da chiudere. Come si sa in questa esperienza pubblicistica Bontempelli maturò non senza polemiche e dissapori la poetica tendenzialmente informale, o meglio pluriformale, come un esprit letterario, (“…cerchiamo l’arte di inventare favole e persone talmente nuove e forti, da poterle far passare traverso mille forme e mille stili mantenendo quella forza originaria…” [4] del Novecentismo e nella fattispecie del Realismo Magico, un ossimoro intenso ma efficace a delineare una risposta operativa alle nuove esigenze espressive di superamento delle secche del naturalismo o dello psicologismo autoreferenziale, “ …Abbiamo sete di avventura. La vita quotidiana e normale vogliamo vederla come un avventuroso miracolo…” intima Bontempelli [5]. In questo denso testo antologico degli scritti della Rivista ‘900, pubblicato nel 1938, Bontempelli enuncia diversi elementi portanti di questa poetica: una specie di funzionalismo estetico del testo tendente a vita propria, come nell’amata disciplina dell’architettura, una tendenza quindi al superamento del soggettivismo “…l’ideale supremo di tutti gli artisti dovrebbe essere: diventare anonimi…” [6] di cui il futurismo rappresenta l’ultimo atto; un linguaggio composto e d’ordine per una mitologia moderna una scientifica fantasia non quindi astratta come quella surrealista ma impastata della materia della realtà, un lucido stupore con cui cogliere il movimento del mistero come gli amati pittori del quattrocento Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca “…Per il loro realismo preciso avvolto in una atmosfera di stupore lucido, essi ci sono stranamente vicini…” (pag. 21) [7]. Una preferenza d’indirizzo verso l’opera narrativa “di qui la prevalenza assoluta , per quanto riguarda gli scrittori, dell’arte narrativa, che dovrà inventare i miti e le favole necessari ai tempi nuovi…” [8]. Un atteggiamento antistilistico per lasciare libertà d’azione all’immaginazione “…l’arte novecentista deve tendere a farsi <> ad avvincere il pubblico>> [9]. Prevalenza del mestiere e indipendenza dal capolavoro “…In Italia è mancata, nell’arte dello scrivere, la produzione media e continuata” [10] ”…trattare l’arte dello scrivere come una professione [11] “…scrivere ogni giorno un pezzo, ogni anno un libro: e viverci…” [12] . Realtà e senso del mistero ”…Precisione realistica dei contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta…” [13].
Tanti di questi elementi si attagliano fin da subito alla personalità letteraria di Moravia e non saranno mai abbandonati nella sua lunga carriera, come la professionalità espressiva testimoniata dall’uso connotativo di un italiano borghese nazionale sempre rinnovato con sottile espressionismo nella costanza delle uscite editoriali in sintonia chiaramente critica con l’evoluzione sociale e di costume della società italiana per più di un sessantennio; il carattere desublimato della narrazione come una macchina celibe distante da soggettività e simbologie e preposta alla produzione a volte in serie di invenzione e intreccio; quel funzionalismo estetico tendente a vita propria spesso realizzato con configurazioni teatrali di discreta obbedienza alle unità aristoteliche e con sistemi narrativi polifonici; e soprattutto le mille combinazioni del reale mai indipendente dall’immaginazione, la presenza cospicua del mistero nell’attenta ricostruzione della vita, attraverso vigili operazioni linguistiche tese ad umanizzare (eco nicciana dell’Umano troppo umano) le più crude voci di dolorose irrealtà.
Ecco nei primi racconti di Moravia si trovano consistenti tracce di realismo magico. Le più evidenti riguardano tagli onirici e scampoli di allucinazioni a volte inseriti e perseguiti con leggerezza assurda e fiabesca bontempelliana come nel racconto “Apparizione”, in cui il solito protagonista stendhaliano Gaspare scandalizzato da Andreina amante bugiarda e disinvolta, viene colpito per la strada da una fotografia di una donna in fattezze di madonna con il suo bambino, poi li rivede su una macchina allora cerca di raggiungerli ma alla fine si perdono. L’immagine rappresenta la donna giusta con tutti i suoi attributi morali materni a posto, una possibilità di fuga dal male normale dell’ipocrisia insito nei rapporti umani. La ricerca è vana, la frustrazione è grande ma la speranza non abbandona il malessere. Tornando indietro Gaspare si accorgerà che l’immagine è scomparsa “<> pensava” [14]. I campi della narrazione si reimpostano come scambi ferroviari, senza alcuna straniante soluzione di continuità, le stesse strade ospitano percorsi di figure corporali e percorsi di figure mentali a ricreare l’ unità della vicenda umana. Il linguaggio è lo stesso quello che sorveglia i fatti e ferma la forza centrifuga dei dettagli attraverso l’ordine dinamico della sintassi e l’aderenza del lessico. “Il taxì partì. Rovesciato sopra i cuscini Gaspare ripeteva dentro di sé: <>. Non avrebbe saputo spiegare il sentimento che provava, forse timore, forse commozione. Gli pareva di esser rimpicciolito di esser tornato bambino…Si scosse, guardò la corsa. Ora il taxì, al seguito dell’automobile, saliva su per una strada stretta e oscura, s’inerpicava verso i quartieri alti, dove nelle loro ville circondate da grandi giardini, abitavano soltanto persone tra le più ricche della città.” [15]. Il deluso Gaspare alla fine tornerà nella sua stanza raccogliendo in terra una banconota da 500 euro di quella somma che il disgraziato e debole marito di Andreina gli aveva offerto per abbandonare la donna. Come dire la realtà, compresa quella intorno al sesso, è forte e sa di compravendita. Drammatica è invece la breve visione allucinata di Gemma, nel racconto La provinciale, che apre uno spiraglio di comprensione del suo futuro con la tremenda amica stalker Coceanu e che la spinge ad afferrare un coltello con cui ferirla appena. Una scena madre che le farà perdere il bambino in grembo ma salverà la sua vita anche coniugale da un menage luciferino su cui aleggia un’atmosfera nevroticamente infernale tra Rosemary’s baby e Fosca di Tarchetti “Chimericamente ma con precisione allucinata, vide il figlio tra quelle braccia, il viso pingue, perfido e impuro della donna chinato su quello del bambino, e se stessa messa in disparte, costretta ad abbracciare suo figlio di nascosto o quando la rumena glielo permetteva…” [16]. Un altro racconto ospita un’articolata tranche immaginifica di muta consistenza quasi traducendo narrativamente la fissità semanticamente inquieta della maniera di Masaccio, Mantegna e Piero della Francesca dell’amato quattrocento, d’altronde molto riconsiderato nel ritorno all’ordine degli anni venti, è Assunzione in cielo di Maria Luisa dove una coppia povera e mal assortita, lei sognatrice lui sempliciotto, si reca al cinema a vedere una film pieno di inaudite ingiustizie. Il marito tutto preso dal film a un certo punto si volta verso la moglie Luisella e si accorge con stupore che il posto è vuoto. Allora interpella il cassiere che gli dice che la moglie si è allontanata con un tipo aristocratico. Lui comincia una ricerca ubriaca, affannosa per le strade della città finché arriva davanti a una sontuosa villa, dove sostano molte automobili. Entra e vede “Luisella era lì, saliva gli scaloni di marmo del verone illuminato al braccio di un ignoto cavaliere; ambedue erano vestiti come due principi…gli pareva di aver avuto un’allucinazione, guardava il sontuoso verone dalle colonne di marmo, quegli staffieri in frac verde oro, si grattava la cuticagna, fermo in mezzo al viale sotto la pioggia battente…preceduta da due servitori negri, al braccio del suo solito cavaliere, ecco apparire Luisella; indossava un elegante vestito di velluto antico e di trine di Bruges una specie di manto le pendeva dalle spalle e spazzava il pavimento; la folla faceva ala al suo passaggio…” [17]. Il racconto, come anche il precedente, testimonia una muta visionarietà che fa pendant con l’introduzione naturalistica iniziale dove si sente già una specie di preparazione indiziaria all’irreale “l’effetto della nera oscurità della notte piovosa era bellissimo, anche il cinematografo ostentava sulla sua porta uno stellone formato di lampadine bianche, rosse e verdi…il giovane del bar aveva fama di essere un donnaiolo e un favoreggiatore di imprese dubbie…” [18]. Il realismo magico agisce sempre in una struttura unitaria, anche se si presenta a volte come scena primaria dilaga poi nelle pieghe narrative, alimentando una specie di inquieta motilità del testo attraverso l’applicazione di un italiano d’uso che mantiene gli echi di un parlato nazionale in diffusione borghese. Su questo manzonismo moderno Moravia effettua cambi di passo sintattici che accolgono un repertorio lessicale d’immediata ed espressionistica pertinenza. Le ultime citazioni evidenziano anche un intervento umoristico teso a reintegrare i toni drammatici del delirio più serio dentro i confini della realtà effettuale, una sorta di umanizzazione dell’altra dimensione magica o surreale.
Note
[1] Moravia-Elkann ,Vita di Moravia, Tascabili Bompiani 2000, pag. 40
[2] Alberto Limentani Alberto Moravia tra esistenza e realtà,Neri Pozza ed. 1962, pag. 15
[3] Alberto Moravia , Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto,lettere 1926-1940, a cura di Alessandra Grandelis, ed.Bompiani Overlook 2015
[4] Massimo Bontempelli L’avventura novecentista, ed. Vallecchi 1974, pag. 23
[5]Ivi, pag.17
[6]Ivi, pag.19
[7]Ivi, pag.21
[8]Ivi, pag.23
[9]Ivi, pag.24
[10]Ivi, pag. 46
[11]Ivi, pag.48
[12]Ivi, pag.18
[13]Ivi, pag.351
[14] Alberto Moravia Apparizione da La bella vita, ed.Tascabili Bompiani 1991, pag.44
[15]Ivi, pag.42,43
[16] Alberto Moravia, La provinciale da Racconti 1927-1951, ed. Bompiani 2015, pag.132
[17] Alberto Moravia Assunzione in cielo di Maria Luisa da Romildo, ed. Tascabili Bompiani 2003, pag.58,59
[18]Ivi, pag.56,57
Già pubblicato in: L'illuminista anno XIII n. 37/38/39 "L'Espressionismo" dic. 2013, Ed. Ponte Sisto Roma
Roberto Milana