Abbiamo ancora negli occhi le immagini dei camion militari che hanno attraversato l’Italia per trasportare le salme in cerca di sepoltura e già si comincia a parlare di ripresa.
E certo è importante che le fabbriche ricomincino a produrre perché se certi settori si fermano, si ferma tutta l’economia di un Paese già devastato dalla concorrenza e dalla fuga di molte aziende verso i paradisi fiscali – alcuni molto vicini, come ad esempio l’Olanda - rischiando di perdere ogni residuo peso economico e politico e di precipitare tutti in manifesta povertà.
I nostri imprenditori sono intelligenti ed hanno approfittato di questi due mesi di pausa per riconvertire, riorganizzare e mettere in sicurezza le aziende: sanno bene che la gestione della sicurezza è lo snodo centrale fra proprietà e sindacati ed occupa in modo pervasivo tutto il sistema delle relazioni.
Un’azienda sicura è un‘azienda non ricattabile, un’azienda che non rischia perdite e denunce, un’azienda che ha con i suoi operai e impiegati una relazione di fiducia alla base della crescita aziendale e della tutela dei posti di lavoro.
Abbiamo tutti potuto vedere come le aziende ripartiranno dopo il 4 maggio. Esse hanno ristrutturato gli spazi, si sono approvvigionate di strumenti per sanificare i posti di lavoro, hanno riorganizzato i turni di lavoro, hanno disegnato i percorsi in entrata e in uscita, hanno dotato il personale di presidi e di strumenti necessari alla prevenzione.
Non altrettanto abbiamo potuto vedere nell’operato delle amministrazioni pubbliche: come hanno riorganizzato la mobilità? Di quanti mezzi pubblici in più si sono fornite? Hanno installato i tornelli per contingentare gli accessi alla metro e sugli autobus? Dotato il trasporto pubblico di sufficienti apparecchi atomizzatori per la disinfezione? Di soluzioni idroalcoliche? Aperto i centri storici per favorire l’uso delle auto?
In questo deserto organizzativo – e mi piacerebbe essere contraddetta dal quattro maggio con la visione di mezzi leggeri e di vagoni della metro che passano ogni cinque minuti e tornelli che si bloccano al ventesimo ingresso – il Ministro per i Beni e le attività culturali annuncia orgogliosamente che biblioteche, archivi e musei, riapriranno dal 18 maggio.
Ora capisco la necessità di sottolineare la propria appartenenza ad un partito politico che da sempre ha fatto della difesa e della promozione della cultura uno dei punti centrali del proprio programma e della propria missione politica, e comprensibile è anche il desiderio di conquistare spazio fra un bollettino e l’altro del Covid, quello che non capisco è perché in questo momento, quando resta ancora bloccata tutta l’area del benessere, del divertimento e della salute no Covid, area che sicuramente contribuisce, in una società di anziani qual è la nostra, alla crescita economica del Paese, sia posta come indifferibile l’apertura di biblioteche e archivi, luoghi del tutto gratuiti e per i quali non si staccano biglietti d’ingresso a pagamento.
Forse perché devono essere riaperti i Musei che, come si sa, sono gestiti, quanto a vendita di biglietti, empori, book shop, servizi di ristorazione e bar, da privati per cui solo una parte dei proventi rientra al Mibact e quindi i Musei si trascinano dietro, come figli piccoli le biblioteche e gli archivi? Forse che qualche sindacato – ma saranno stati convocati sul tema i sindacati, non è la sicurezza sui luoghi di lavoro materia da contrattare? - avrà sentito il dovere di far presente che i settori si devono riaprire tutti, anche quelli che anche normalmente solo un paio di frequentatori al giorno?
Si sarà forse pensato che, giacché il pubblico di archivi e biblioteche è limitato, i rischi per la salute sono limitati? Così non è dal momento che per aprire queste strutture una gran quantità di persone avrà necessità di muoversi ogni giorno e di prendere ogni giorno i mezzi pubblici e, arrivati poi tutti nei posti di lavoro li troveranno esattamente come li hanno lasciati: senza atomizzatori, senza guanti né mascherine, senza nessun percorso diversificato o termometro laser e l’unica decisione presa dal povero dirigente che, ricordiamo, è datore di lavoro e rischia di essere denunciato penalmente se qualcuno contrarre il Covid, sarà quella di convocare il medico e la società che si occupano della sicurezza insieme ai Sindacati con l’unico risultato di interminabili e inutili riunioni mentre il virus se ne andrà spasso per l’aria e ci rimarrà per sedici ore.
Non è che non vogliamo bene alle biblioteche, gliene vogliamo fin troppo ma sappiamo, da sempre, che, senza i bibliotecari e senza gli archivisti, le biblioteche e gli archivi muoiono.
Bibliotecari e archivisti sono già stati decimati dalle nefande riforme conseguenti alla spending revew degli anni Duemila con blocco delle piante organiche e dei concorsi pubblici sicché adesso, con un personale insufficiente non è percorribile la strada di una riorganizzazione per turni che preveda cioè la compresenza di poche persone con orari ridotti in modo da contenere i rischi e diluire nel tempo l’uso dei mezzi pubblici.
Non vorremo insomma che sull’altare della cultura si sacrificasse la salute delle persone e che la smilza schiera dei bibliotecari, degli storici dell’arte, degli archivisti e degli archeologi si assottigliasse ancora di più per qualche vittima sul lavoro.
Il P.D. ha, nell’intimo, una vocazione aziendalista, il Ministro per i beni culturali la potrebbe esplicitare al meglio chiedendo alle aziende che traggono profitto dal turismo culturale nei musei italiani, di regalare alle biblioteche ed agli archivi – oltrecché ai musei e ai parchi archeologici - tutto l’occorrente per la prevenzione da Covid aiutando poi i dirigenti a riorganizzare l’attività.
Potrebbe utilizzare i futuri fondi europei derivanti dal Mes per provvedere alla sicurezza di tutti i luoghi aperti al pubblico, potrebbe, sempre con gli stessi fondi proseguire l’opera di digitalizzazione, almeno nei musei e nelle biblioteche più importanti, dei documenti librari, artistici e archivistici che non siano stati già riprodotti e assicurarsi che anche il patrimonio audiovideo dei luoghi d’arte sia sempre pienamente fruibile da remoto.
E, sempre nell’ottica aziendalistica – con la quale molti sono stati educati dai giacimenti culturali di De Michelis in poi, si potrebbero varare rapidissimamente e concludere ancor più rapidamente tutti quei concorsi fino ad aggiungere nell’organico ministeriale i seimila dipendenti in più annunciati da Bonisoli, ora davvero indispensabili e necessari per consentire a tutti di lavorare in sicurezza e in modo diverso.
Perché vogliamo bene alla cultura e, certo, preferiamo che essa resti viva nella relazione fisica e dialogica fra opera, pubblico, professionisti della catalogazione e studiosi, ma siamo ben consapevoli che tutto ciò, da adesso e per gli anni a venire, si potrà svolgere solo approntando presidi, strumenti e misure di sicurezza nonché ripensando la funzionalità degli stessi spazi.
Perché se lo Stato deve essere un’azienda, come ci hanno ripetuto da almeno trent’anni, quest’azienda si deve comportare proprio come un’azienda nell’organizzazione del lavoro e nel mantenimento della salubrità ambientale.
Soprattutto ora che, a causa di un virus sconosciuto, le persone stanno morendo a migliaia e spesso in modo orribile.
Cetta Petrollo
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